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dott.ssa Gaia Ruia

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Palestra Psuché

Se penetrata e vissuta, la crisalide, ossia la conoscenza, si auto-transmuta in auto-coscienza; 
se penetrata e vissuta, la coscienza, ossia la crisalide, si auto-transmuta in farfalla;
autocoscienza-farfalla, ossia
psuchè:
in volo verso la consapevolizzazione dell’esistenza

-Nello Mangiameli-

IN BREVE…

Sono nata a Roma il 05 luglio 1975, dopo gli studi classici, mi sono laureata in Fisioterapia, contemporaneamente agli studi universitari ho iniziato la formazione in Sigmasofia, presso l’omonima Scuola, fondata e diretta da Nello Mangiameli (ricercatore sulla coscienza e scrittore), conseguendo il titolo di Maieuta con specializzazione in Io-somatica (formazione durata dieci anni, ho comunque mantenuto l’attitudine alla formazione continua alla vita-autopoiesi). Attraverso la formazione, avendo sperimentato su me stessa l’inscindibilità dei piani corporeo, psico-emotivo ed energetico (autopoiesi), non ho potuto fare a meno di integrare le mie prese di consapevolezza vissuta all’attività lavorativa, ideando il metodo Fisiosofia.
Attualmente svolgo la mia attività di fisioterapista in una Clinica di riabilitazione di Roma e privatamente, conduco sedute di Sigmasofia Io-somatica e Fisiosofia, continuo ad essere socia fondatrice dell’Ass.ne Sophy, con ruolo attivo, ho co-condotto un gruppo di pedagogia e psicagogia sigmasofiche, di Teatro autopoietico e stages di Sigmasofia. Nell’anno 2020 ho pubblicato il libro Fisiosofia – Riabilitazione dell’Io e neuroplasticità coscienziale – Ed. La Caravella.



GENESI SIGMASOFICA

Sono nata il 05 luglio 1975, a Roma. Seguii gli studi classici, che all’epoca mi costarono sacrifici in termini di tempo libero e divertimento, ma mi formarono nella costanza e nella disciplina, nonché all’attitudine all’approfondimento, probabilmente perché, dovendo studiare il latino e il greco, l’etimologia delle parole mi insegnava che spesso i termini di uso comune hanno, in origine, molteplici significati che, in base al contesto, determinano il senso di un concetto, di un racconto. Questo, seppure quando ero studentessa non me ne rendessi assolutamente conto, abitua la mente a “non dare per scontato”, a non fermarsi al primo elemento noto. Il percorso di studi, inoltre, non essendo specialistico, determina in qualche modo una forma mentis “nell’andare a monte”, il che predispone (ed è indispensabile, spesso) per poter (volendo) scendere nello specialistico, mentre il passaggio inverso è molto meno immediato, sicuramente non indotto. Probabilmente questi studi, essendo più predisposta di indole all’introversione-introiezione, ben si confacevano alla mia inclinazione. Lo sport ha sempre fatto parte della mia vita, sicuramente prediligendo quelli artistici, ma quello in cui mi allenai per più anni fu il pattinaggio artistico su rotelle, che dovetti lasciare proprio per via degli studi molto impegnativi, tuttavia quella fu una fase in cui desideravo più impegnare il tempo libero uscendo con gli amici, ma comunque il piacere per la danza e tutto ciò che implica il movimento è sempre stato un altro filo conduttore nella mia vita. Fu proprio nei primi anni del liceo che avvennero due episodi importanti per me, che credo abbiano “indirizzato” le scelte e gli eventi degli anni seguenti. Il primo è che sapendo della malattia di un mio ex compagno di pattinaggio, si accese in me una fortissima spinta ad andarlo a trovare, sbaragliò tutte le mie paure, timidezze e incertezze dell’età che avevo e mi ritrovai ad andare di nascosto dai miei a casa sua (dovevo prendere diversi autobus e fare lunghi tratti di strada a piedi, in zone non ben frequentate). Aveva un tumore e aveva perso la sua autonomia, ma la sua gran voglia di fare e soprattutto la sua soddisfazione quando mi parlò dei risultati ottenuti con gli esercizi di fisioterapia fecero nascere in nuce l’idea di quella che sarebbe poi diventata la mia professione: terapista della riabilitazione. Qualche anno dopo i miei si separarono e per me fu un vero e proprio “fulmine a ciel sereno”, spazzando via all’improvviso e progressivamente tutte quelle che fino a quel momento avevo vissuto come certezze, come punti di riferimento. Ma questo evento portò mia madre a conoscere e a frequentare l’allora Animazione del Pensiero, fondata da Nello Mangiameli. Questo “Movimento” si occupava di ricerca sulla coscienza, di tecniche energetiche e altre forme introspettive e meditative, tutte cose che erano lontane dai miei interessi del momento, perché mi sembravano tutte cose astratte, di cui non mi ero mai interessata. Un giorno Nello venne a pranzo da noi, e conoscendolo mi resi conto che non c’era niente di astratto, anzi la prerogativa di questo Movimento era l’esperienza pratica e diretta, senza nessun leader di riferimento, se non ciò che se ne ricavava come insegnamento, come “messaggio”, dall’esperienza stessa. Non c’era nessun elemento di esoterismo, di occulto, di pranoterapia (intesa come facoltà di pochi), quanto un allenamento alla percezione diretta, e quindi alla presa di consapevolezza, del campo vitale che, in quanto tale, ognuno di noi veicola. Questo approccio così pratico mi incuriosì e partecipai ad un’escursione in un luogo veramente bello e suggestivo: Barbarano. Il percorso fu complesso, pieno di sorprese: inizialmente in piano, sempre più avvolti dal verde, poi su un punto panoramico mozzafiato e poi sempre più immersi nel bosco, sempre più fitto, rovi, discese senza appigli, antichissime grotte etrusche, salite faticose, corsi d’acqua da attraversare, insomma un’avventura, resa ancora più tale quando scoprii che quello, in realtà, era un modo di meditare, perché l’approccio che ognuno di noi aveva nel superare gli ostacoli, affrontare le difficoltà era, a ben osservare, assolutamente traslabile sul modo di affrontare le situazioni di vita personali. Questo immediato riscontro per me fu entusiasmante, perché davvero il mio modo di muovermi in natura (e quello che gli altri raccontavano di loro stessi) osservavo che corrispondeva con il mio modo di affrontare la vita. Così avvenne il mio “battesimo etrusco”, su un sentiero che ancora mi appartiene. In quello stesso anno, mi iscrissi all’Università di Tor Vergata (a Roma), alla facoltà di Terapia fisica e riabilitativa. Quindi iniziai parallelamente due corsi formativi. Mi ritrovavo a scoprire da un lato il funzionamento dell’essere umano dal punto di vista prettamente anatomo-fisiologico e patologico, dall’altro prevalentemente da un punto di vista psico-emotivo, o meglio psico-somatico-energetico, secondo i termini di quella che venne ridenominata “Scienza della Coscienza”. Avevo circa vent’anni e questi percorsi formativi mi assorbivano molto, erano la mia vita, i miei interessi prioritari, molto più di pubs, discoteche e similia, il che mi costò l’essere poco “riconoscibile”, “inquadrabile” dai miei coetanei, ma per me non era assolutamente un problema, con la determinazione che mi aveva finora accompagnata, andavo dritta per la mia strada. Con la “Scienza della Coscienza” venne inserita una nuova Attività, ossia l’Io-somatica: l’approfondimento della conoscenza di sé attraverso i vissuti corporei (senza la mediazione del linguaggio verbale), per esplorare prevalentemente la sfera psico-emotiva, nonché ovviamente corporea (ecco perché l’unico termine). Attraverso questa metodica, mi era possibile rendermi conto, attraverso il vissuto, di quanto tale sfera influisse sul modo di muoversi, sulle tensioni del corpo, sul modo di relazionarsi con l’altro e sul come, lavorando sugli elementi emozionali/psichici, automaticamente si avevano degli effetti su di esso. Lavorando su di me, scoprii quanto il mio essere razionale-intellettuale, in realtà, seppure fosse una dote nello studio, nell’aver disciplina, era il mio più grande ostacolo al lasciarmi andare alle emozioni, e di quanto il mio corpo, seppure allenato, affascinato dalla danza, fosse bloccato e affascinato proprio da quella fluidità che “emotivamente” mi mancava. L’elaborazione verbale in gruppo di quanto vissuto durante quella metodica mi fece aprire gli occhi…e la consapevolezza su quanto le persone pensano di comunicare e di quanto, in realtà, ognuno viva inconsapevolmente nel proprio mondo, con rare e vere aperture all’altro, ad un’altra ottica. Il lavoro individuale, ma in gruppo, consentiva di fare dell’altro uno specchio per se stessi, per osservare, dopo essersi lasciati andare all’emozione vera, viscerale, che nella reazione che si aveva al comportamento dell’altro c’era tutta la propria storia di provenienza, con i propri nuclei emozionali ed elementi da risolvere. Quindi l’altro non era più l’elemento da accusare, su cui scaricare le la responsabilità della propria sofferenza, o del proprio benessere, ma era una parte di noi, quella attraverso la quale si potevano evidenziare le proprie componenti. Ecco che allora, consapevole di questo, intuivo la possibilità di poter costruire una relazione su una base molto più profonda, perché non proiettiva, basata su un’empatia oltre le proprie risonanze emozionali (appunto perché elaborate). Ma c’era un’altra modalità molto meno evidente, inizialmente, come riscontro nel quotidiano, ma molto più efficace: le Autopoiesi Olosgrafiche. Nel frattempo, la “Scienza della Coscienza” si era trasformata in “Ypsilambdasophya”, fino a che assunse l’attuale denominazione: “Sigmasofia”. Tutti questi passaggi di denominazione sembravano un’assurdità, è vero che nel frattempo erano passati almeno quindici anni, ma anche questo era un messaggio, che nel frattempo scoprivo, circa la reale assunzione di essere dei ricercatori e quindi, in quanto tali, di non fermarsi alle prese di consapevolezza realizzate (“all’elemento noto”, come per il significato etimologico delle parole). Così come la ricerca nel campo scientifico, ad esempio, o in altri settori, non si ferma e non deve farlo, perché quella su se stessi dovrebbe? Questo senso di ricerca continua ha molto a che fare con le Autopoiesi olosgrafiche. Queste sono delle tecnologie interiori per percepire, attraverso il vissuto, il campo vitale che, come detto, ognuno di noi veicola, ma che, proprio perché è alla base dell’essere in vita, si dà per scontato e non ci si preoccupa di come funzioni. Con queste tecnologie si andava a percepire tale campo al di là dell’emozione (dopo averla sviscerata in tutte le salse, con le Autopoiesi Io-somatiche, le escursioni in chiave introspettiva ecc.), ossia ciò che ci permette di emozionarci, di pensare, di muoverci al di là del contenuto specifico (quella determinata emozione, quello specifico pensiero, quel dato movimento ecc.). Scoprii di essere predisposta a questa metodica da subito, perché prevalentemente entravo senza dispersioni, senza resistenze, era molto facile abbandonarmi a tutte quelle caleidoscopiche visualizzazioni di striature luminose, immagini antiche e luoghi sconosciuti, accompagnate da forti sensazioni anche fisiche. Ma per molto tempo vivevo il lavoro sulla sfera psicosomatica scollegata da quella energetica-sovrasensibile (autopoietica), non trovavo, nel vissuto, il trait d’union, seppure razionalmente sapevo bene quale fosse. Una volta, durante uno stage, ebbi un vissuto emotivamente molto implicante, che mi scosse molto, nella fase successiva al vissuto, che consisteva nel praticare un’Autopoiesi olosgrafica (denominata Concentrazione-transmutazione) appunto per osservare l’emozione in circolo, ebbi difficoltà a farlo, perché assorbita ancora dall’emozione stessa, ma mi lasciai andare alle visualizzazioni, decidendo di volerlo fare (così come avevo imparato a farlo per immergermi nei vissuti emozionali), e improvvisamente mi sentii spostata fisicamente, interiormente, in quell’atmosfera tridimensionale che tante volte avevo vissuto, ma questa volta la sensazione di spostamento mi dette il senso vissuto del lavoro che stavamo facendo: una volta lasciata scorrere l’emozione (la stessa che, se trattenuta, consapevolmente o inconsciamente determina la fluidità o meno del movimento, anche relazionale), questa si esaurisce da sola e si trasforma (si transmuta) perché la coscienza, la consapevolezza, si sposta letteralmente su un altro “strato” che la forma. Ecco che tutto mi si univa: il progressivo allenamento, da un lato, ad immergersi nell’emozione (nel contesto), al lasciarla fluire esattamente per come si sente e, dall’altro, l’abitudine a lasciarsi andare alla percezione della propria interiorità nei vari momenti, contribuiva a costruire il proprio potere reale, di cui un applicativo era sapersi immergere empaticamente in ogni contesto, in ogni emozione-pulsione, autorizzarsi a viverla e sapersene distaccare pur percependola, simultaneamente, potendo scegliere consapevolmente se viversela senza identificarsi in essa, piuttosto che lasciarsene assorbire-condizionare. Era la stessa sensazione che avevo avuto a Barbarano: la percezione dall’alto e l’immersione in ciò che si vedeva dall’alto, simultaneamente. Finalmente stavo scoprendo, da dentro, che l’Io-soma-autopoiesi sono la stessa cosa, e che più si entra nello specifico, nel dettaglio, più, avendo l’esperienza delle Autopoiesi olosgrafiche, ossia di ciò che sta a monte del dettaglio, più si vive la dimensione olistica di sé, che non è un’esperienza astratta, perché duramente conquistata sul campo: esperienza su esperienza, autosservazione su autosservazione. Gli studi classici (che mi avevano in qualche modo iniziato ad allenare ad andare a monte), la mia indole introspettiva, la mia motivazione d’ingresso a superare le mie difficoltà stavano trovando applicativi esistenziali, potevo vederne i frutti. Nel frattempo, conclusi gli studi Universitari e, attraverso questo lavoro che stavo facendo su di me, non potevo non accorgermi delle analogie tra la mancanza di consapevolezza e gli effetti che questa poteva avere sul corpo, limitandone le capacità, fino alla patologia. Se tutto è unico, se l’Io-soma-autopoiesi sono “sfaccettature” di un unico processo, come negare questo collegamento nella cosiddetta malattia? L’eziologia della maggior parte delle patologie che studiavo era sconosciuta, indipendentemente dalla causa osservavo che i “malati” il più delle volte non erano soddisfatti della propria vita, non accettavano la propria disabilità e quindi (forse a maggior ragione) la loro malattia aveva degli effetti emotivo-relazionali nelle loro vite. La Fisioterapia consiste nell’eseguire degli esercizi per rafforzare la muscolatura (debilitata a seguito di diversi motivi), di recuperare l’escursione articolare, limitata in seguito a determinati eventi, e mira al rendere il più possibile autonomo il paziente successivamente all’evento patologico, ma, sapevo bene ormai che l’autonomia ad esempio non poteva essere solo un traguardo motorio, l’autonomia da conquistare (dovendo usare questo termine) è piuttosto rispetto ai propri condizionamenti, alla propria accettazione di avere delle difficoltà, ad accettare e chiedere l’aiuto altrui, lì dove necessario (…), la fisioterapia convenzionale per me aveva (ha) un approccio limitato. E non si può neanche dire che al fisioterapista non spetta la cura dell’aspetto psicologico, in quanto ci sono altri Esperti che si occupano di quella sfera, perché il fatto concreto è che se esiste l’Io-soma-autopoiesi non posso tecnicamente occuparmi esclusivamente del corpo, escludendo la “personalità” del paziente. Ne è prova che la stragrande maggioranza dei fisioterapisti si lamenta di doversi occupare (pur non avendo scelto quella mansione), di fatto, anche delle problematiche emotive della persona, ma senza averne né la competenza (perché non sono stati formati a questo all’università), né la voglia. Questo, a ben osservare, è una questione che riguarda la maggior parte dei lavori a contatto con il cosiddetto pubblico, ovviamente la questione si esaspera quando le persone con le quali si ha a che fare stanno vivendo una parte particolarmente dolorosa della propria vita, in quanto “malati”. Voglio dire che, in base alla mia esperienza, è imprescindibile una formazione a se stessi, soprattutto per poter occuparsi dell’altro, senza nulla disconoscere, ovviamente, agli psicologi e agli psicoterapeuti. Così riversai queste mie riflessioni nella tesi dal titolo: “Approccio psico-fisico al paziente in riabilitazione”. Il titolo originale era: “Approccio psico-fisico-energetico al paziente in riabilitazione”, ma il termine “energetico” mi fu censurato dal mio Relatore. Realizzai un video sulle modalità operative praticate dal mio gruppo formativo e sulle stesse applicate su un gruppo sperimentale di anziani che stavo seguendo all’epoca. Nonostante le resistenze del mio Relatore sull’opportunità o meno di uscire così fuori dalla convenzione in sede di discussione della tesi di laurea, questa andò molto bene e uscii con il massimo dei voti e la soddisfazione che il video aveva ravvivato, per un momento, quei volti annoiati dei professori della commissione esaminatrice, abituati ai soliti argomenti. Diversi anni dopo uscì una normativa che dava la possibilità di equiparare il mio titolo professionale a quello di Laurea di primo livello (che nel frattempo si era creato). Quindi dovetti discutere un’altra tesi, stavolta scelsi come argomenti: “Il Counseling di Scienza della Coscienza in riabilitazione”. Anche in questo caso, ci furono delle resistenze, anche perché, essendo più che altro una formalità, il mio Relatore ufficiale di fatto non si interfacciò mai con me durante la stesura, e non conosceva il termine “counseling” che, in Italia, in effetti ancora non veniva usato comunemente. Stavolta feci un po’ una forzatura e mi opposi alla censura. La discussione della tesi mi valse la lode e il riconoscimento dell’allora presidente nazionale dell’A.i.Fi. (Associazione italiana fisioterapisti), che mi chiese se fossi disponibile a proporre dei corsi di formazione per la loro associazione su questo argomento. Ovviamente e ben volentieri accettai, ma mi disse che ne doveva parlare in commissione affinché la proposta potesse essere accettata, mi telefonò e mi comunicò, dispiaciuto, che la proposta non era stata approvata perché non si proponevano tecniche riabilitative manuali, in senso stretto, e aggiunse che evidentemente ancora non erano pronti, nell’ambiente, per proposte di più ampie vedute. Mi dispiacque ovviamente, ma il suo commento fu comunque un bel “premio consolatorio” per me. Sono ormai venti anni che lavoro come fisioterapista e che seguo l’odierna Sigmasofia, ora in qualità di Maieuta, oltre che di ricercatrice e ho messo “in Sigma” i miei percorsi, creando la “Fisiosofia”, che non è altro che l’approfondimento della conoscenza di sé partendo dall’esplorazione della propria relazione con la patologia e di come questa influenzi la relazione con gli altri. La modalità operativa è quella della Sigmasofia, prima descritta e, ovviamente, adattata alle possibilità motorie della persona. È interessantissimo per me accompagnare le persone in questo percorso e prendere atto di come ogni persona possa effettivamente conquistare la profonda e reale libertà di “movimento” solo attraverso un lavoro su di sé. Ho constatato, inoltre, quanto siano di un’efficienza straordinaria le Autopoiesi olosgrafiche, proprio perché avendo le persone che tratto difficoltà motorie, lì, nella propria interiorità, possono scoprire una realtà di movimento molto più ampia di quella corporea (e non solo perché limitati su quel piano). L’abbinamento dell’elaborazione dei propri nodi emozionali permette, del resto, la possibilità di stare coi piedi per terra …e la testa per aria, nel senso che l’esplorazione dentro di sé del sovrasensibile non è una fuga dal sensibile, dall’emozionale, dall’acquisito. Ho co-condotto un gruppo di bambini e genitori nell’ambito della Pedagogia e Psicagogia Sigmasofica, in supervisione con Nello Mangiameli, per circa due anni. Conduco sedute individuali in Io-somatica e in Fisiosofia in qualità di Maieuta. Co-conduco gruppi di Sigmasofia Io-somatica in supervisione.
Ho Pubblicato il libro Fisiosofia – Riabilitazione dell’Io e neuroplasticità coscienziale –, Ed. La Caravella, 2020, sul nuovo metodo da me creato che integra le metodiche riabilitative a quelle di Sigmasofia

Flybes
è il mio nome autopoietico, acronimo della sintesi dei vissuti realizzati, per me più significativo, così come rappresentato graficamente nel mio logos
Psuché
è il nome della Palestra della coscienza da me diretta.

 

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